Esplosivi in porto: siamo sicuri?

Il terminal di Ponte Eritrea, nel porto di Genova – a cui abitualmente attraccano le navi saudite della Bahri – è gestito dalla società C. Steinweg – G.M.T. Srl, che fa parte (dal 1992) del gruppo olandese C. Steinweg con sede a Rotterdam. Per come è conformato l’attracco, una nave di 225 m può solo accostare su uno dei due lati del ponte, dove peraltro sono solitamente posizionate le quattro gru (1 da 150 t, 2 da 80, 1 da 36).

L’area complessiva di 130.000 m² è in gran parte coperta (70.000 m²). La società terminalista dichiara che i magazzini sono «approvati da LME e LIFFE», cioè dalle normative per le rinfuse metalliche stabilite dal London Metal Exchange e dal London International Financial Future and Options Exchange, e questo ci fa pensare che non siano aree destinate alle merci pericolose e tanto meno agli esplosivi.

In effetti, secondo quando afferma la stessa Autorità Portuale di Genova (APG), nel porto vi sono solo quattro aree destinate alla sosta delle c.d. “merci pericolose”: al Terminal Container VTE, al Terminal Container SECH, all’ex Terminal Messina (ora I.M.T.) e al Terminal Industrie Rebora.

E del resto dalle notizie in nostro possesso le Bahri non hanno mai caricato munizioni, bombe o comunque dangerous goods di Classe 1 al Terminal Metalli genovese.

La segnaletica per gli esplosivi di Classe 1, secondo l’International Maritime Dangerous Goods Code (IMDG Code).

Il problema è un altro, cioè che sicuramente le Bahri entrano in porto già cariche di merci esplosive di Classe 1, come potrebbe facilmente constatare la APG, a cui tocca il compito del «monitoraggio in continuo e in tempo reale delle merci pericolose giacenti/transitanti nel porto di Genova» (così è scritto nel Regolamento emanato con l’ordinanza del 22 maggio 2001, n. 4, dalla stessa APG). Dalla stessa ordinanza sembra di capire, però, che gli operatori sono obbligati a fornire le apposite istanze alla APG solo quando intendono accedere alle aree autorizzate per le merci pericolose – le quattro sopra elencate – o per procedere all’imbarco o allo sbarco di merci pericolose.

Che le navi saudite contengano merci pericolose possiamo senz’altro affermarlo in base alla rotta che le navi compiono abitualmente, e che tocca sempre porti – anche se non sempre gli stessi – nordatlantici ed europei militarizzati o da cui transitano i maggiori flussi delle forniture militari verso l’Arabia Saudita e gli Emirati (una rassegna di questi porti si può leggere qui in Cosa ci porterà questa volta la nave Bahri?). In qualche caso l’informazione è stata confermata dalla testimonianza oculare di lavoratori portuali dei porti dove effettivamente sono state imbarcate munizioni, e da quella documentatale delle ong che hanno potuto utilizzare lo strumento del Freedom of Information Act.

Screenshot dall’intervista alla tv fiamminga «TV Oost Nieuws», in cui l’agente marittimo della Bahri in Anversa, Sven De Mestre, CEO della De Keyser Thorton, ammette l’esistenza di materiale militare a bordo della “Bahri Yanbu” in rotta verso Anversa
il 2 febbraio 2020.
[https://www.tvoost.be/nieuws/saoedisch-wapenschip-wijzigt-koers-onder-druk-van-vlaamse-en-federale-overheid-92494]

Se ce ne fosse ancora bisogno, poi, la presenza di sistemi d’arma di grandi dimensioni in stiva è indirettamente confermata dalle strategie di occultamento praticate dalla compagnia Bahri, che da qualche viaggio ordina ai comandanti delle navi di presentarsi in porto con i portelloni interni ermeticamente chiusi, per impedire alla vista dei lavoratori ciò che le stive contengono. Anche la presenza sempre più massiccia, durante le soste delle Bahri, di personale di polizia entro la cinta portuale, testimonia dei forti interessi in gioco, venuti clamorosamente in evidenza con l’azione dello scorso maggio proprio a Genova.

Le esplosioni accidentali di munizioni non vanno sottovalutate come un pericolo remoto.

Secondo l’ong ginevrina Small Arms Survey, negli ultimi quarant’anni si sono registrati 606 incidenti di questo tipo in oltre 100 paesi, 2 anche in Italia (a Ghedi nel 1998 e Baiano di Spoleto nel 2005, 7 feriti in tutto). Il trend è in crescita, gli eventi infatti sono concentrati per tre quarti negli ultimi vent’anni, con il record assoluto nel 2011 (38 incidenti in quel solo anno) ed episodi molto frequenti anche negli ultimi tre anni (66 incidenti complessivamente).

Grafico tratto da Unplanned esplosions at munitions sites (UEMS), Small Arms Survey fact sheet, pubblicato nell’ottobre 2019.

Valutando gli episodi più recenti abbiamo cercato di farci un’idea dell’ampiezza dell’area che potrebbe essere coinvolta in un’esplosione accidentale di munizioni.

Ad esempio, nell’incidente accaduto nel luglio 2011 all’interno della base navale “Evangelos Florakis”, a Cipro, le pesanti conseguenze causarono la morte di 13 persone e il ferimento di altre 69 non solo all’interno della base ma anche in due villaggi a 4,5 km di distanza, oltre che la completa distruzione della vicina principale centrale elettrica di Cipro, situata a soli 200-300 m. Un rapporto ufficiale individuò le cause dell’esplosione nel grave degrado di conservazione in cui vennero lasciate 1400-1500 t materiale militare esplosivo, di provenienza iraniana e diretto via nave in Siria, confiscato nel 2009 su pressione della US Navy e rimasto in depositi a cielo aperto per oltre due anni.

Il cratere dopo l’esplosione all’interno della base navale cipriota “Evangelos Florakis”.
La centrale elettrica (visibile in alto al centro) rimasta completamente distrutta, distava dall’epicentro dell’esplosione circa 400 m.

Nell’incidente accaduto nel marzo 2008, presso l’ex deposito militare di Gërdec, in Albania, dove era in corso la de-militarizzazione di 400 t di munizioni obsolete, l’esplosione – che fece 26 morti e oltre 250 feriti, e fu udita persino a Skopjie, a 160 km di distanza – danneggiò seriamente le auto che percorrevano l’autostrada Tirana-Durazzo, a 2,2 km dall’epicentro dell’esplosione.

Simuliamo che al terminal genovese gestito da Steinweg – G.M.T. sia all’attracco una nave che porta in stiva alcuni o numerosi container pieni di munizioni pesanti.

Misuriamo le distanze. Dal punto nave, bastano 100-200 m per arrivare all’attracco – dove spesso sostano piccole cisterne – del deposito costiero di Sampierdarena Oli, 11.000 m² con capacità di stoccaggio di 35.000 m³ di liquidi infiammabili ma non combustibili (cioè con punto di infiammabilità non superiore a 63°, come stabilito dalle norme di sicurezza della Capitaneria di Porto: cioè benzine, alcoli, gasolio).

Immagine da Google Earth del porto di Genova. Al centro il ponte Eritrea, attracco del Terminal Steinweg-G.M.T.
I cerchi in giallo individuano un raggio di 450 m e di 1.000 m rispettivamente.

Nel raggio di 400 m troviamo anche altre attrezzature portuali e urbane importanti, i ponti Somalia e Libia verso ovest, e il ponte Etiopia verso est, lo scalo ferroviario di Genova Marittima. Subito a contatto con l’area portuale la nuova strada sopraelevata Guido Rossa, la via Aurelia – che qui, dopo il crollo del ponte Morandi, è a tutte le ore un vero imbuto di traffico leggero e pesante – e quindi le prime case di Sampierdarena. Tutto, ripetiamo, a soli 400 m in linea d’aria da quella nave che potrebbe essere carica di munizioni.

Entro 700 m si trovano i depositi costieri della Silomar, specializzata in rinfuse liquide (oli vegetali, biodiesel, glicoli e prodotti petrolchimici con punto di infiammabilità superiore a 65°), oltre al ponte Idroscalo che, insieme a Calata Massaua e Calata Inglese, costituisce l’area occupata dal Terminal Spinelli.

Entro i 1.100 m è compreso il deposito costiero di Get Oil, con capacità di 25.000 m³ di prodotti petroliferi, nonché un lungo tratto della diga foranea.

Quale smart port – come si chiama la nuova visione dei porti moderni ecosostenibili improntati alle nuove tecnologie digitali – potrebbe consentire l’ingresso di una nave carica di armi e munizioni in un porto così affollato di circostanze palesemente pericolose? Quale Autorità portuale e Capitaneria di porto può prendersene la responsabilità omettendo di informare lavoratori e cittadinanza per non interferire negli affari commerciali dei trafficanti di armi e esplosivi? Quali sindacati dei lavoratori possono trascurare di vigilare esigendo invece trasparenza di informazioni e assolute condizioni di sicurezza per i lavoratori che operano a bordo e in banchina durante le operazioni portuali per queste navi? E quali istituzioni possono disinteressarsi della prevenzione e della protezione dei cittadini da queste situazioni “esplosive”?