IL PROGETTO WEAPON WATCH

La costituzione a Genova di The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo risponde a una necessità ed è una conseguenza.

È una conseguenza del caso della nave saudita «Bahri Yanbu», che ha fatto il giro del mondo. Ed è una necessità, perché il sistema dei media ha poche occasioni di venire a conoscenza della realtà dell’economia di guerra, realtà pervasiva e quotidiana ma ampiamente rimossa.

Cosa abbiamo imparato. Del blocco della «Bahri Yanbu» si sono occupate anche testate importanti come Le Monde Diplomatique e Jacobin. Qui basta ricordare che all’origine vi è stata la pubblicazione di un rapporto segreto dei servizi d’informazione militari francesi da parte del sito di giornalismo investigativo Disclose. Più rilevante ancora è stata la mobilitazione transfrontaliera che ha coinvolto diversi soggetti indipendenti in Belgio, Francia, Spagna, Italia, che hanno seguito i movimenti della “nave delle armi”, fino al blocco sulle banchine del porto di Genova.

Sullo sfondo la guerra dimenticata del Yemen, asimmetrica e soprattutto criminale, condotta dall’Arabia Saudita e sostenuta dai suoi alleati nel Golfo e in Occidente in violazione delle Convenzioni di Ginevra, della Carta dell’ONU, del Trattato sulle armi convenzionali, firmati dagli stessi paesi che non hanno cessato di fornire armi e bombe usate contro i civili yemeniti.

Cosa abbiamo attorno. Mentre i governi dell’Unione Europea si palleggiano il problema dei migranti – vero fattore di dis-integrazione europea –, le guerre senza fine innescate dagli Stati Uniti stanno producendo effetti socio-economici permanenti. I bilanci degli Stati spostano risorse verso le spese militari, le opinioni pubbliche sono assuefatte alle immagini e alla cultura della guerra, le liste della destra radicale e identitaria progrediscono quasi ovunque nel mondo occidentale.

A 70 anni dalla fondazione della NATO, pensiamo sia ormai chiaro che lo scopo difensivo originario – se mai ci fu – è stato palesemente contraddetto da numerose guerre, condotte con armi, soldati e intelligence “atlantici” per scopi di dominio violento, dalla Iugoslavia al Kurdistan recentemente invaso dall’esercito turco.

Su cosa dobbiamo puntare l’attenzione. Senza altre armi che non siano la conoscenza, l’informazione, l’internazionalismo, la solidarietà; senza altri strumenti che non siano quelli digitali; il nostro programma è costruire reti che oltrepassino muri e frontiere e svelino ciò che è già evidente: tutto il sistema produttivo globale opera come un gigantesco macchinario militare e militarizza i rapporti di produzione al ritmo forsennato diThe World on Time(il vecchio slogan di FedEx), mentre d’altra parte gli eserciti vengono ormai gestiti come aziende, come industrie che producono guerra.

I porti sono al cuore del sistema militare-industriale mondiale, le supply chain lo innervano, la logistica lo organizza. Se è vero che tutte le merci collaborano allo sforzo della “terza guerra a pezzi” – dal petrolio al coltan, dalle automobili all’elettronica, dalle scorie radioattive ai generatori  –, le armi però rappresentano immediatamente il campionario di morte offerto sul mercato globale.

Dobbiamo e vogliamo osservare le armi che transitano nei porti, sia perché lì diventano meno nascoste, sia perché i lavoratori dei porti e i marittimi sulle navi non amano maneggiare queste merci mortifere, che passano sempre indisturbate anche laddove ai migranti – prime vittime delle armi esportate dai nostri ai loro paesi – viene impedito di sbarcare.

L’unica speranza che viene offerta alle masse dei poveri è la cooptazione nel mondo dei ricchi, ovviamente alle condizioni di questi ultimi, e per pochi fortunati. Per gli altri, la risposta è il “sistema Gaza” (controllo e repressione dei ghetti), che le aziende israeliane stanno felicemente esportando come combat-tested.

Vogliamo e dobbiamo conoscere meglio i prodotti e le tecnologie che le nostre imprese dicono di fabbricare per l’esportazione, ma che in realtà sono già rivolte contro di noi (ricordate L’Abicì della guerra di Bertolt Brecht?). Rendere pubblico il discorso sul lavoro che produce armi è già riconvertirlo, è già metterlo in discussione, non darlo più per scontato né accettarlo a tempo indeterminato.


STATUTO DELL’ASSOCIAZIONE THE WEAPON WATCH

https://www.weaponwatch.net/wpww/wp-content/uploads/2020/01/00_Statuto.pdf